Natale, Pasqua
e la quasi-scomparsa
dell’annuncio dei
“Novissimi”
Come per la festività del Natale si usa dire che “tutti sono più buoni”, che tra presepi e alberi addobbati spirano ovunque sentimenti di dolcezza e benevolenza, che le atmosfere natalizie contagiano tutti, credenti e non credenti, per la festività di Pasqua le definizioni stereotipate iniziano a scarseggiare. Anzi tendono a slittare dal livello religioso a quello civile, fino a quello pagano: si parla di “festa di primavera”, di “uova di Pasqua” sempre più elaborati e lussuosi come icona culinaria onnicomprensiva, mentre in pochi ormai apertamente ricordano le due radici, ebraica e cristiana, di questa celebrazione. Nel primo caso, il popolo ebraico si riferisce al “passaggio” dalla schiavitù in Egitto alla libertà, dallo stato di sudditanza a quello di un popolo finalmente tornato artefice del proprio destino, perché ha riconosciuto e reso il culto al vero Dio. Per i cristiani, poi, la Pasqua è invece il “passaggio” di Cristo dalla morte in croce alla resurrezione, un miracolo assoluto perché totalmente inspiegabile ed inimmaginabile, se non per un intervento divino, come appunto la fede cristiana e le Scritture affermano.
Ebbene, se volessimo provare a verificare il grado di consapevolezza dei cristiani di oggi, che sono oltre i due terzi della popolazione italiana, su questa tremenda ed “assurda” verità di fede che è la resurrezione di Gesù, potremmo avere delle sorprese.
Una buona metà del campione potrebbe ricordare o riconoscere nella resurrezione il tratto fondamentale della nostra fede. Cristo in quanto uomo viene messo a morte, tra atroci sofferenze, ma Cristo in quanto Figlio di Dio ritorna alla vita, sciogliendo il suo corpo dal Sudario (identificato nella Sacra Sindone) nel quale era stato avvolto e uscendo dalla tomba. Più tardi apparirà ai discepoli, impauriti di fare la stessa sua fine, facendosi toccare le ferite. Insomma, siamo di fronte a una verità molto meno “piacevole” e zuccherosa di quella del Natale. Quest’ultimo narra infatti della nascita comunque altrettanto miracolosa e strana del “salvatore” nato da donna, ma non figlio di un maschio normale, bensì “per opera dello Spirito Santo”. Quindi una gravidanza assolutamente eccezionale, “coperta” e protetta dalla paternità putativa di San Giuseppe che aveva accettato per fede di prendere con sé Maria già incinta.
Queste sono le sconvolgenti verità che i cristiani da duemila anni sono chiamati a credere per fede, una fede messa a dura prova dalle esigenze della logica e del crudo realismo: può una donna essere fecondata dallo “spirito”? Gli scettici farebbero fioccare battute sarcastiche, ma se Dio esiste lo può certamente fare. Può questo Gesù, nato così misteriosamente, camminare sulle acque? Anche qui gli scettici riderebbero a crepapelle, burlandosi dei creduloni …. Ma se Gesù è davvero uomo-Dio, altro che camminare sulle acque. E’ lui che ha creato le acque e può cambiarne la natura, da liquida a solida, a suo piacimento.
Può sempre il solito Gesù non opporre resistenza dinanzi alla volontà degli anziani di Israele che lo condannano a morte, visto che in quanto uomo-Dio, basterebbe che muovesse il dito mignolo e spazzerebbe via tutta Gerusalemme? Per fede siamo chiamati ad accettare che lui abbia deciso di subire il supremo oltraggio della crocifissione, soffrendo come e più di ogni altro condannato a morte. Ma certo ci vuole una forte fede!
Tutti questi esempi per arrivare a un punto: gli eventi del Vangelo, di là dai distinguo tra l’uno e l’altro evangelista, sono tutti proiettati verso il destino trascendente degli uomini, cioè verso il paradiso oppure verso l’inferno.
Ebbene, sembra quasi che la Chiesa odierna, dai livelli gerarchici più alti giù giù sino alle parrocchie e alle chiese dei piccolissimi centri, trascuri un po’ la dimensione “trascendente” e punti invece su quella “immanente”: basti pensare alla insistenza sulla accoglienza dei migranti, che ha connotato l’attuale pontificato sin dal suo avvio dieci anni fa. Non si parla quasi più, almeno esplicitamente, di peccati e di comandamenti, quasi ci fosse il timore di infastidire i “peccatori”, cioè coloro che a livello pubblico aperto hanno o stanno violando una delle dieci “parole” delle Tavole di Mosè. Così niente pubbliche reprimende per i peccati carnali (masturbazione, omosessualità, adulterio, impudicizia, pedofilia). Niente minacce dei castighi eterni per i ladri, i violenti, gli assassini, i truffatori, i mentitori, gli speculatori, gli schiavisti e cosi via. E’ come se la Chiesa avesse improvvisamente, dopo due mila anni, messo il silenziatore a tutti quei passi del Vangelo in cui si minaccia la condanna perenne a quanti in vita hanno commesso peccati gravi senza pentirsi.
Invece di sentire predicare i cosiddetti “Novissimi”, che sono “morte-giudizio-inferno-paradiso”, i quattro livelli di fronte ai quali (per chi crede) scattano il desiderio e l’impegno a vivere bene, per non finire dritti all’Inferno, ai nostri giorni ormai siamo abituati a sentire parlare di “misericordia” di Dio che “perdona tutto”, “perdona sempre”, “accetta tutti” e non lascia fuori nessuno. Sarà che Dio è proprio così misericordioso ma, viene da pensare, forse avrà ragione anche il Salmo 86 che dice “Tu sei buono Signore e perdoni, sei pieno di Misericordia con chi ti invoca”. Quindi non è una misericordia gratuita e incondizionata, ma esige da parte di noi poveri uomini un po’ di impegno, di presa di coscienza, diremmo un po’ di richieste di perdono e di volontà di cambiare vita.
E che dire della insistenza sulla “accoglienza”? Va bene anche qui essere generosi oltre il limite del ragionevole, però a condizione che non sia un obbligo imposto politicamente a una intera popolazione. La generosità, la carità vanno decise e vagliate a partire dal livello personale. Il “Buon Samaritano” non ha atteso l’arrivo di una Ong per aiutare il malcapitato, ma se lo è caricato personalmente sulle spalle e ha pagato lui, coi soldi propri, per la sua assistenza. Quindi l’accoglienza “diffusa” e oggi “obbligatoria” in realtà andrebbe attuata solo con piena consapevolezza e sapendo a cosa si va incontro; non può diventare un vincolo insostenibile per persone e comunità magari già in difficoltà di proprio. Oggi si tende ad appoggiarsi a questa linea, sostenuta dalla sinistra e anche dalla Chiesa, di “accoglienza a tutti i costi” per giustificare politiche aperturiste dove i migranti divengono i nuovi simboli della società “inclusiva”, e coloro che invece vogliono porre dei limiti agli arrivi di clandestini vengono bollati come “sovranisti”, “reazionari”, “fascisti”, e così via.
Potremmo continuare con gli esempi di una predicazione che oggi sembra trascurare la vita eterna per mettere invece l’accento, per essere un “buon cristiano”, solo sugli impegni terreni. Certo non tutti i preti sono così, non tutti i fedeli si identificano in questa visione prevalentemente “immanente” della fede. Ma questo sembra essere il tratto culturale e sociologico dominante.
Ora, siccome Gesù ha detto: “il mio regno non è di questo mondo”, dobbiamo presumere che egli si riferisse a un regno celeste, dove potranno accedere coloro che comprenderanno e vivranno fino in fondo il suo messaggio che ha dei contenuti di carità terrena, certo, ma per una direzione e un destino sicuramente e soprattutto ultra-terreno.
Qualcuno ritiene che la insistenza per l’accoglienza, per superare i limiti rappresentati dai confini geografici e favorire gli spostamenti dei popoli dove vogliono, sia fondata su ragioni non soltanto umanitarie ma anche geo-politiche, climatiche e di conflitti molto diffusi e frammentati (la famosa “terza guerra mondiale a pezzi” di cui parla spesso Papa Francesco). Ma certo resta la domanda di un fondo: compito della Chiesa è soprattutto quello di farsi agente di grandi migrazioni tra continenti, abbattendo di fatto i confini e creando una umanità meticcia e melting-pot, oppure di annunciare anzitutto il Regno di Dio, concetto eminentemente spirituale ed interiore?
Il Credente
08/04/2023