Perché non si fanno più figli?
Ci sono alcuni temi sociali che hanno un fortissimo risvolto personale, addirittura di natura molto “intima”: uno di questi è la bassa natalità in Italia.
E’ un tema sociale in quanto c’è una diffusa preoccupazione per il progressivo calo delle nascite registrato nel nostro paese a partire da una decina di anni a questa parte: le statistiche più recenti parlano di meno di 400 mila nati all’anno per gli ultimi due-tre anni, che se confrontati con i 700-800 mila di un paio di decenni fa evidenziano lo sfondamento all’ingiù del necessario “tasso di sostituzione” che dovrebbe essere di almeno 2,1 figli per donna. Da noi la media è 1,24 figli per donna, cioè largamente al di sotto della soglia di mantenimento numerico di un popolo. E neanche servono gli immigrati, regolari o irregolari che siano, i quali certo fanno mediamente più figli degli italiani, ma che poi mostrano, nel medio termine, la tendenza ad assumere le “abitudini” demografiche del popolo che li ha accolti.
In Europa fa eccezione la Francia che, per le sue ricche politiche sociali e di sostegno alla genitorialità, vede al momento una discreta propensione delle donne ad avere figli: Oltralpe siamo a 1,8 figli per donna anche se – a dire il vero – occorrerebbe scomporre i dati interni per gruppi etnici e di nazionalità presenti sul suolo francese. Potremmo così scoprire che la foltissima comunità di immigrati africani e mediorientali presenti tiene un po’ artificialmente alta la bandiera di paese che sostiene le nascite.
Sta di fatto che, praticamente tutti i paesi del vecchio continente stanno soffrendo in questi ultimi decenni di un preoccupante calo naturale della popolazione, solo parzialmente compensato dagli arrivi di migranti.
Veniamo quindi al secondo aspetto legato alla natalità in Italia: quello più “intimo”. Qui si entra nel vivo delle problematiche psico-affettive ormai diffuse a larghi strati dei giovani-adulti del nostro paese. Il panorama dei comportamenti di ragazze e ragazzi dei nostri giorni è piuttosto chiaro e standardizzato. Rispetto ai molti “tabù” di qualche decennio fa, i giovani hanno man mano assunto modalità relazionali aperte e disinibite: il sesso anche al primo incontro ormai pare sia una cosa quasi ordinaria, salvo poi avere ripensamenti repentini e rompere l’idillio magari già al secondo appuntamento. Oltre al generalizzato crollo delle remore morali e religiose di un tempo, forse un fattore scatenante questa rivoluzione comportamentale è stato dovuto all’utilizzo su larga scala degli anticoncezionali oltre che delle app di “dating”.
Essendo venuti meno gli ambiti un tempo in grado di selezionare i candidati a un fidanzamento più o meno “garantito” (comunità parrocchiali, quartieri dove ci si conosceva un po’ tutti, parentado allargato, gruppi amicali che vivevano più o meno all’interno di uno spazio collettivo riconoscibile e familiare) ecco che i giovani del terzo millennio si trovano a dover sperimentare per la prima volta in maniera sistematica la ricerca del o della partner un po’ alla cieca, fidandosi di strumenti quali le suddette “app” del cellulare, sperando che i candidati che vi si registrino non siano dei criminali potenziali dai quali sarebbe stato meglio stare alla larga …
Il risultato di questo nuovo contesto socio-psicologico è che i giovani in età – una volta si sarebbe detto – “da marito” o “da moglie” oggi sono costretti a fare continui tentativi per conoscere persone che vengono da contesti spesso sconosciuti, con esperienze familiari alle spalle altrettanto spesso segnate da dolori, tensioni dei genitori, separazioni e divorzi, quindi con esempi che tutto fanno fuorché indurre a un fiducioso cammino preparatorio a “metter su famiglia” (come si diceva una volta) in maniera serena e costruttiva.
Ci poniamo quindi alcune domande precise.
Perché si tende ad avere relazioni frequenti e piuttosto instabili e incostanti, invece di puntare a costituire coppie “robuste” e desiderose di dare vita a una famiglia? Perché, se si decide di tentare comunque un qualcosa di simile a una famiglia, si va a convivere, senza assumersi gli impegni di un matrimonio civile o religioso e che pone comunque dei vincoli stringenti? Perché si fanno pochi figli, uno al massimo e per lo più in età avanzata, e spesso si preferisce scegliersi un cane piuttosto che affrontare il rischio di un neonato da far crescere?
Secondo lo psichiatra Paolo Crepet, intervenuto nei giorni scorsi a un convegno a Roma promosso da Farmindustria, “il problema è soprattutto la felicità. Se sei felice – ha detto - un figlio lo fai, indipendentemente dagli aiuti o dai sussidi”. Ha poi aggiunto che “le primipare oggi hanno di norma 35 anni, nessuno si stranisce se ne hanno 45, ma c’è anche chi fa i figli a 60 anni. Ma questo è egoismo, perché ogni ragazzo ha il diritto di vivere e crescere con persone vive, non cariatidi”.
Su questi aspetti “intimi” delle decisioni che ragazzi e ragazze assumono circa la gestione della propria affettività, sessualità e genitorialità, a questo punto entrano in gioco delle considerazioni legate al ruolo svolto in passato dalla educazione religiosa all’interno del popolo italiano, rispetto a quanto avviene oggi. La Chiesa con le sue strutture territoriali (parrocchie, associazioni, oratori, centri giovanili) ha visto via via venire meno le presenze dei giovani, diminuire i catechisti e animatori, abbandonare la pratica delle messe e quella sacramentale delle confessioni e della guida spirituale.
Oggi è rarissimo trovare preti che offrano un servizio continuo e conosciuto di affiancamento dei giovani sia per le confessioni sia per un franco dialogo sulle scelte di vita più impegnative. I giovani non cercano più questo “servizio”, se non una minoranza, e quasi del tutto è scomparso a livello di coscienza collettiva il concetto di scelta tra il bene e il male, che invece, fino a tre-quattro decenni fa aveva accompagnato la messa a punto dei comportamenti e dei valori di riferimento.
Soprattutto, oggi è quasi del tutto scomparso un fattore che invece aveva rappresentato un potentissimo slancio verso il futuro: quello della “divina provvidenza”, cioè l’aiuto di Dio atteso e confidente che aveva permesso alle generazioni dei nostri padri di mettere su famiglia senza pressoché alcuna sicurezza di quelle che oggi cerchiamo. Eppure, in quelle situazioni di vera povertà, le famiglie avevano cinque-sei o anche più figli. Tutti mangiavano, crescevano, lavoravano sodo, facendo grossi sacrifici sin da piccoli, ma impostando una vita basata sull’impegno personale e su un solido quadro di valori di fondo.
Forse è questo il vero fattore che scoraggia le nascite oggi: le giovanissime generazioni di oggi sono figlie dei “boomers” degli anni 60-70, dei cosiddetti “sessantottini”, impregnati di materialismo e relativismo etico. Queste generazioni della rivoluzione sessuale e del sinistrismo tipo lotta continua e potere al popolo non sono state in grado di passare ai propri figli quei valori di impegno e sobrietà che avevano pure visto ed ereditato dai propri genitori. E così il risultato è che questi venti-trentenni dei nostri giorni non hanno un riferimento spirituale trascendente (la “divina provvidenza” che interviene nella vita di tutti gli uomini) e non possiedono nemmeno quel riferimento di perseveranza tenace che ha consentito ai propri genitori di combattere per la propria crescita e affermazione culturale, sociale e professionale.
I nostri giovani attuali ritardano le scelte, le scansano quando sono molto impegnative come quella di mettere al mondo dei figli, non perché “non sono felici” come afferma Crepet, ma perché non hanno la forza interiore di combattere duramente per i propri sogni. E non hanno soprattutto la convinzione profonda che molto del personale successo dipenda da ciascuno di noi, ma altrettanto che si possa contare sulla bontà di Dio che non fa mancare il suo aiuto a coloro che cercano il bene vero nella vita.
Il fallimento di una società che non fa più figli (o che comunque ne fa troppo pochi) dipende in ultima analisi dalla rinuncia alla speranza e dall’accontentarsi di “benefit” immediati (il rapporto sessuale facile e furtivo, piuttosto che il patto di lungo termine tra un uomo e una donna maturi che guardano al domani). E così facendo la società si condanna alla sterilità e alla auto-distruzione.
Il Credente
18/03/2024