Diritti civili.
Per tutti o solo
per alcuni?
La storia dei diritti civili ha riguardato nei secoli molti temi.
Fra questi il ‘900 ha affrontato quelli della schiavitù, con la conseguente parità di diritti a prescindere del colore della pelle, e della parità delle donne con gli uomini.
Temi importantissimi e sacrosanti.
Temi che in questo secondo millennio, dal mio punto di vista, hanno preso una deriva violenta e non condivisibile.
Come si può accettare, infatti, la violenza del movimento dei Black Lives Matter in Stati Uniti? Violenza che arriva a ritenere giusto, tanto da farlo, la distruzione di simboli da loro avversi quali statue di personalità storiche quali Washington e Lincoln nelle città. Per non parlare del fatto che, per fortuna solo in un caso, nella capitale federale statunitense gli stessi Black Lives Matter hanno ritenuto di avere il diritto di abbattere una statua rappresentante Gesù Cristo.
Quale la logica che porta qualcuno a pensare di rappresentare il proprio disagio attraverso l’utilizzo della violenza sull’altro. In pratica si utilizza la violenza per contestare la violenza che si asserisce di subire.
Altro grande, ed importantissimo tema, quello dei diritti di parità delle donne.
Tema di parità che, voglio essere estremamente netto su questo, è centrale in una società che voglia crescere armonicamente.
Entrambi questi temi alti e fondanti vengono troppo spesso, sempre a mio umile parere, strumentalizzati e tramutati a simboli di una parte.
La libertà è comprensione di ogni punto di vista a cui segue una sintesi che rappresenta la mediazione fra gli stessi. In caso contrario diverrà sopraffazione, disagio che porta il sopraffatto a reazioni quasi sempre altrettanto errate ed eccessive.
In Stati Uniti le violenze e, in alcuni sporadici casi, gli eccessi di tutela delle azioni illegali di esponenti della comunità nera stanno creando sentimenti estremamente divisivi e pericolosi per la tenuta sociale stessa della nazione.
Richieste di “zone franche”, di “quote”, di “diritti a compensazione per il periodo abominevole della schiavitù” per la comunità nera stanno portando altre comunità e minoranze, per esempio quella dei nativi (i discendenti dei pellerossa), a forme di protesta contro i neri e finalizzate a richiedere gli stessi diritti compensativi.
Eccesso chiama sempre eccesso. Non è mai una soluzione, questo ci insegna la storia. Purtroppo nel mondo di oggi il pensiero di Giovan Battista Vico non è certo ritenuto centrale.
Egualmente temo di dover dire per la cultura, ed il relativo movimento, femminista. Movimento, questo io penso, oramai troppo partigiano, nel senso di schierato a prescindere da una parte. A prescindere soprattutto dai contenuti.
Come non stigmatizzare la sgradevole, sempre per chi vi scrive, differenza di comportamenti e di presa di posizione del movimento femminista allorquando vi era da attaccare l’amministrazione Trump comparata con il devastante, e veramente assai sgradevole, silenzio dello stesso movimento femminista mondiale in ordine al massacro delle donne talebane dopo la fuga dall’Afghanistan delle truppe USA voluta dal Presidente Biden?Egualmente come non stigmatizzare il silenzio dei movimenti femministi rispetto alle torture di massa in Cina delle donne della comunità degli Oiguri? Ancora come non rimanere delusi dal silenzio delle leaders del movimento femminista, comprese onnipresenti parlamentari italiane, in ordine agli odierni fatti contro le donne e contro la loro richiesta di libertà dal potere teocratico in Iran? Ricorda qualcuno le parlamentari di sinistra inginocchiate in parlamento?
Il femminismo è un movimento che gli storici tendono a suddividerlo in tre momenti.
Voglio dichiararlo in premessa, il femminismo è stato centrale nel miglioramento del sistema sociale occidentale. Non riconoscerlo e non ringraziarlo per questo sarebbe ridicolo.
I tre momenti distinguono diverse generazioni di donne che hanno combattuto “battaglie” a favore della emancipazione delle stesse.
La prima fu in Inghilterra e vide le “suffragette” esserne le protagoniste.
Le suffragette erano un comitato che, era il 1865, combattè per il diritto di voto alle donne. Diritto che, in Inghilterra, ottennero parzialmente nel 1918 quando il Parlamento inglese votò il diritto al voto alle mogli dei capifamiglia sopra i 30 anni e integralmente il 2 luglio del 1928. Solo in questo anno, infatti, tale diritto fu garantito a tutte le donne adulte del Regno Unito. in Italia questo oggi scontato diritto venne riconosciuto solo con il referendum sulla scelta fra monarchia e repubblica alla fine della seconda guerra mondiale.
Il secondo momento fu negli anni ‘60 del secolo scorso in Stati Uniti con il femminismo americano.
La seconda guerra mondiale cambiò totalmente il modo di vivere delle donne americane che sostituirono nel lavoro gli uomini al fronte.
Con il boom economico post bellico degli anni ‘60 le stesse donne non erano più disposte a rimanere tra le mura domestiche senza alcun tipo di ambizione personale. Le rivendicazioni riguardarono dal diritto al controllo della fertilità della donna, al diritto di abortire, oltre al diritto ad affrontare apertamente il tema dello stupro e della violenza domestica.
Il tema dell’immagine della donna proposta dai media e, in generale, dai mezzi di comunicazione di massa divenne centrale nel dibattito femminista di quel periodo.
Movimento che al tempo ritenne che delimitare il ruolo delle donne in quello della “padrona di casa” era svilire le loro potenzialità.
Allo stesso tempo il movimento ritenne che l’idea di una donna madre e limitata al lavoro domestico non poteva più essere quella veicolata dalla pubblicità che, al contrario, doveva essere strumento di cambiamento di una cultura più moderna e paritetica con l’uomo per l’universo femminile. Iniziò un percorso di emancipazione della figura della donna. Percorso che, se ebbe come obiettivo quello di dare valore alla figura femminile portandola ad avere una posizione paritetica ed autonoma, a mio sempre umile parere, oggi, ha spesso ridotto la stessa figura femminile a quella di un oggetto.
Il terzo momento gli anni ‘80 e ‘90, in essi il femminismo, ormai movimento strutturato in tutto l’occidente, dopo aver ottenuto in diverse nazioni sia il voto che altri risultati su temi, che il movimento chiama “battaglie”, quali l’aborto ed il divorzio, lo stupro e le violenze domestiche, porta il proprio ragionamento sulla consapevolezza verso la sessualità in un’ottica di “rieducazione” della società.
La chiamarono “emancipazione sessuale” ove i diritti di genere e dei “transgender”, la discriminazione razziale e di classe, il diritto al lavoro, le politiche di aiuto alla maternità presero piede.
Temi di contenuto, meno, dal mio punto di vista, le soluzioni spesso proposte, soprattutto in Italia, ancor più soprattutto sulle politiche a supporto della maternità.
Negli ultimi anni la tutela delle minoranze o il tentativo di riequilibrio di alcune situazioni sociali ha portato la politica, spesso inadeguata in occidente e prona alle lobby, a normare invece che ad educare su questi temi.
Il risultato è stato quello di veder produrre da parte del legislatore norme che prestabilivano “quote”.
La madre di tutte le “quote” è quella delle “quote rosa”, cioè del definire che si debbano obbligatoriamente assumere o dare incarichi per “quota” anche al gentil sesso.
Oggi vediamo, sul precedente di una norma meramente basato su percentuali, nascere analoghe richieste da altre lobby. Da quella degli omosessuali a quelle degli extracomunitari regolari.
In futuro, dovesse passare questo principio, vedremo che le stesse lobby si divideranno ulteriormente.
Permettetemi un paradosso per spiegare la deriva che io temo che dovremo vedere assai presto nel nostro occidente.
Da questa cultura opportunistica, basata su diritti profondi da tutelare, rischieremo di vedere, ricordo voglio fare un esempio a paradossò, la lobby delle “bionde naturali” chiedere quote autonome da quella generale dato che in Italia le “bionde naturali” sono una netta minoranza delle donne. Vedremo i cittadini italiani di origine tunisina, è ovviamente solo un banale esempio casuale, chiedere quote autonome da quelle generali per gli extracomunitari divenuti cittadini italiani. Vedremo le varie categorie “gender”, scusatemi la franchezza ad alcuni certamente indigesta ma voglio dichiarare che queste clusterizzazioni di mera origine di marketing del privato delle persone mi fa letteralmente schifo, chiedere “quote” autonome partendo dal principio che se le “donne” hanno diritti anche gli altri “gruppi” debbano averne di pari.
Questo porterà a sistemi socio politico economico centrifughi e non inclusivi, la storia ci insegna che la fine di quei percorsi è sempre un totalitarismo repressivo dei diritti.
Io, “cittadino semplice”, avezzo allo studio e poco propenso alle urla di gruppo per darsi ragione da soli, sono fortemente convinto che sia la cultura, e non la norma, a far crescere i sistemi sociali.
Cultura alta e basata sulla maieutica e sulla condivisione di soluzioni fra portatori di idee, valori, interessi opposti. In pratica sulla politica della mediazione.
Ecco, appunto, questo alto valore, la capacità di mediare, mi porta ad affrontare uno dei temi più spinosi in assoluto nel mondo divisivo di oggi.
Il tema della tutela della vita ed il conseguente tema dell’aborto.
Ragionerò sul tema dell’eutanasia in un prossimo futuro dopo che avrò terminato una serie di incontri con personalità e scienziati di diverse culture che mi permettano di avere una visione completa di su un tema così ultimativo. Reputo, infatti, che sia molto più costruttivo ascoltare e comprendere che prendere la parola allorquando non si è approfondito con la miglior completezza possibile temi di questa complessità.
Diritto alla vita ho appena scritto.
Tema dall’ampiezza assoluta.
Diritto alla qualità della vita.
Diritto a decidere della propria vita.
Diritto a costruirsi la propria vita.
Diritto di nascere.
Ogni diritto ha il suo opposto dovere, ma di doveri si sente parlare assai meno.
Allora provo a guardare il tema dell’aborto.
Alcuni la legge sull’aborto la definiscono “una battaglia vinta”, o anche “una conquista”.
Parole divisive e, questa la mia opinione, inopportune ed autolesioniste.
Vorrei che chi mi onora di leggermi si soffermasse sul fatto che una “battaglia” non rappresenta che un passaggio in una “guerra” e non la parola “fine”. Altrettanto la parola “conquista” può prevedere una successiva parola “ritirata”, in alcuni casi “disfatta dovuta ad una controffensiva”.
Poco saggio, dal mio umile punto di vista di “cittadino semplice”, basare la crescita culturale di un sistema sociale complesso su queste categorie.
Il diritto all’autodeterminazione sulla gravidanza di una donna esclude il diritto alla vita del nascituro in grembo. Questo secondo, infatti, non viene tutelato nel suo diritto di nascere.
A dire il vero non viene tutelato nemmeno il ruolo del padre, certamente meno impegnativo, ma comunque indispensabile alla procreazione.
Ancora, per esempio in Italia ove i demografi stanno rappresentando fortissime preoccupazioni sulla decrescita, non sono presi in considerazione gli interessi sociali di lungo periodo della civiltà italiana.
Il diritto a non volere un bambino è sacrosanto, meno il dichiarare che detto diritto abbia una sola soluzione (quella dell’aborto) e non diverse soluzioni che siano da verificare prima di quella di ultima istanza che è l’aborto.
Lo Stato deve tutelare anche il diritto alla vita del nascituro garantendo, concretamente e non ipocritamente, soluzioni alternative alla gestante che non vuole diventare mamma.
Parlare in questi termini oggi porta i cultori di una visione diversa a definirti come un “estremista cattolico”, nulla di più lontano da me, oppure un “fascista”, sconsiglio a definirmi tale ho già querelato altri che lo hanno fatto, provenendo da una cultura ben diversa da quella post Hegheliana. Io sono solamente un uomo libero che ragiona basandosi sui propri valori e sulla logica.
Molto più banalmente, o molto più elevatamente, desidero proporre a chi legge una idea della mediazione alta come strumento della gestione del sistema sociale ove nessuno ritenga che la strada della “battaglia” e della “conquista” sia una strada percorribile e che, soprattutto, chi la intende percorre comprenda che la vittoria di una battaglia non esclude la “controffensiva” di chi ha perso la stessa.
La vita sociale sarebbe opportuno non interpretarla come una battaglia ma come una crescita condivisa e rispettosa di ogni diritto, non solo quello di uno degli attori in campo. Questa la mia opinione di umile “cittadino semplice”.
Vivremo tutti più felici.
Ignoto Uno
03/10/2022