La sublimazione dei media
Un tempo si usava dire “lo ha detto la televisione”, “il telegiornale”, “il Corriere della Sera” o “La Repubblica”, “è sull’Ansa”.
Questi erano i “timbri” della “verità” su un fatto.
I media erano ritenuti, erga omnes, “autorevoli”. Lo erano perché “terzi” al sistema.
I lettori più sofisticati erano attenti agli articoli del New York Times piuttosto che del Financial Times o di Le Figaro.
I più anziani di noi, sempre “cittadini semplici”, collegano il Washington Post allo scandalo Watergate, alto momento di giornalismo che portò negli Stati Uniti alle dimissioni il Presidente Nixon.
Noi “cittadini semplici” un po’ più avanti negli anni ricordiamo le ficcanti domande, mai urlate ma puntuali, dei tanti giornalisti che partecipavano alle “tribune politiche” di Jader Jacobelli, Giorgio Vecchietti o Ugo Zatterin
In quei tempi i giornalisti, pur facendo “riferimento”, così si diceva al tempo, ad un partito politico, erano, pressoché tutti, assai puntuti nel fare “domande”.
Domande vere.
Oggi tutto questo è, troppo spesso, preistoria.
Il famoso “quinto potere” è sempre più prono al potere politico, finanziario, industriale.
Vi sono argomenti “intoccabili” per i media di oggi, argomenti “scomodi”.
Volendo menzionare fatti italiani, c’è qualcuno che si sente di avere la certezza che un Andrea Purgatori dei nostri giorni potrebbe “indagare”, prima, e “scrivere”, dopo, su un nuovo “caso Ustica”?
Potrebbe un novello Purgatori scrivere contro la “verità dichiarata dal potere” su qualche scomodo scandalo internazionale, magari formatosi in Italia, come al tempo permise il direttore del Corriere della Sera a quel, allora giovanissimo, giornalista?
La mia risposta è “No”.
Se la mia risposta dovesse essere corretta, drammaticamente, dovremmo tutti noi “cittadini semplici” dedurne che la democrazia ne stia subendo le conseguenze.
Oggi siamo, troppo spesso, alla sublimazione del ruolo dei media.
Da ficcante strumento di giudizio e controllo della qualità dei sistemi democratici, ad organo di indirizzo di quelle che un tempo venivano definite “le masse”.
Una sofisticazione della propaganda.
Questa, però, come non notarlo, è lo strumento con cui vengono “erogati” concetti ed idee con il fine di indurre nell’opinione pubblica specifici atteggiamenti, pensieri, azioni.
La “propaganda” lavora sull’inconscio degli esseri umani, pianifica tecniche di persuasione finalizzate al coercere il lato emotivo delle persone, determina i comportamenti.
Chi persegue la propaganda svolge un ruolo che è l’esatto contrario di chi si eleva a tutore della libertà di stampa, del “quinto potere” dei media. Al ruolo di “garante del sistema democratico”.
Chi persegue la propaganda sublima se stesso dal ruolo del giornalista a quello di servo del potere.
Non so se chi mi onora nel leggermi ha delle suggestioni dal mio scrivere, non so se nel leggermi ritiene che nella nostra amata, così tristemente povera di “schiene dritte”, Italia si possano, oggi, identificare giornalisti, addirittura intere testate giornalistiche, identificabili come appartenenti alla categoria di “giornalisti sublimati”.
Io, da “cittadino semplice” e per decoro, non amando la censura che assai spesso vedo intorno a me, aborrendo la propaganda, annoiandomi molto più di un po’ a causa della pochezza che mi circonda, anelando di poter leggere scritti paragonabili per spessore ed autorevolezza a quelli di Indro Montanelli, Enzo Biagi o Igor Man, non voglio, pur avendo le mie opinioni a riguardo, far italici esempi.
Porterò, esclusivamente, l’attenzione di chi mi legge un esempio internazionale, un fatto, dal mio punto di vista, esplicativo di come si stia scivolando in basso nel “giornalismo” di oggi.
Pochi giorni fa il New York Times ha ritenuto di scrivere un editoriale ove dichiarava che la cantante statunitense Taylor Swift è appartenente alla comunità LGTBQ+, e lo ha fatto ad insaputa della stessa, senza compulsarla.
La testata giornalistica si è lanciata in un ragionamento finalizzato a dimostrare che Taylor Swift sia “queer”.
Il New York Times si è lanciato, diciamo così, nel dichiarare che sia che l’artista “ne sia consapevole o no, la Swift manda segnali al popolo queer, nella nostra lingua, che ha qualche affinità con la nostra identità", questo ha affermato la giornalista, opinionista, del quotidiano Anna Marks. Giornalista che parrebbe far parte del mondo LGTBQ+.
La Swift, il suo staff, i suoi fan non hanno gradito questo essere “tirati dentro” a certe logiche, ambienti, essere “catalogati”.
Io, sempre “cittadino semplice”, sommessamente, continuo a ritenere che ciò che accade nel letto degli altri non debba essere di mio interesse.
Io, sempre “cittadino semplice”, sommessamente, continuo a ritenere che ciò che accade nel letto degli altri, se non contiene notizia di reato, non possa essere ritenuto elemento fondante di un pensiero politico a prescindere se fra quelle lenzuola avvengano eventi etero o meno.
Io, sempre “cittadino semplice”, sommessamente, continuo a ritenere che ciò che accade nel letto degli altri sia elemento cardine di quello che un tempo si definiva “intimità”, ambito che non veniva nemmeno sfiorato dalla politica, eppure, anche nei tempi dei sopra menzionati vati del giornalismo, le lenzuola avrebbero potuto “parlare”. Parlare assai.
Bei tempi quei tempi.
Quelli erano i tempi in cui in politica si cimentavano Berlinguer, Moro, Cossiga, Craxi, La Malfa, Pertini e Saragat, alcuni nomi fra i tanti che portarono benessere agli italiani.
Questi, ne sono certo, si sarebbero annoiati un bel po’ con molti dei giornalisti che van per la maggiore oggi.
Al contrario rispondevano alle domande dei giornalisti del loro tempo.
Domande “vere” quelle del tempo, appunto.
Ignoto Uno
11/01/2024