GIRO DELLA LUNIGIANA 2025
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Giro della Lunigiana 2025: 167 corridori,
334 pedali e l’illusione meravigliosa di reggere il mondo

Non serve un palcoscenico di Broadway per raccontare l’eroismo: bastano una salita, una bicicletta e la testardaggine di un ragazzo che rifiuta di fermarsi.
Ci sono sport che hanno bisogno di effetti speciali, regie televisive frenetiche, coreografie da stadio. E poi c’è il ciclismo, che non mente mai: la sua bellezza sta tutta in una salita che sembra infinita, in un respiro che si spezza, in un cuore che pompa disperato. È lo sport che più di tutti somiglia alla vita: lento, crudele, ma capace di improvvisi lampi di grandezza.
Il Giro della Lunigiana, che oggi apre la sua 49ª edizione, non è una semplice corsa juniores: è un rito di passaggio, una fucina di leggende, un prologo di destini. 167 ragazzi al via, 334 pedali pronti a girare con la convinzione infantile di reggere il mondo. Quei pedali cigoleranno, strideranno, obbediranno ciechi al comando delle gambe, illudendosi di avere un ruolo da protagonisti. Ma noi, spettatori ironici e indulgenti, lasciamo pure che si credano indispensabili: in fondo, anche la Storia si regge su ingranaggi minimi.
La Lunigiana accoglie questi giovani corridori con la grazia crudele delle sue strade: tornanti che si avvitano come enigmi, discese vertiginose che esaltano il coraggio, paesaggi che sembrano cartoline ma che hanno il difetto – o il merito – di chiedere ossigeno e muscoli. Non è un caso se proprio qui hanno imparato a soffrire e a vincere ragazzi che oggi rispondono a nomi da leggenda: Vincenzo Nibali, Tadej Pogacar, Remco Evenepoel. Ogni loro grande vittoria ha il sapore di un ricordo nato qui, tra Liguria e Toscana, quando il futuro era ancora un’ipotesi.
Quest’anno tocca a Rosato, Segatta, Fedrizzi, Frigo e a un manipolo di giovani italiani che portano sulle spalle il peso dolce della speranza. Ci sono anche i campioni mondiali su pista Magagnotti e Cornacchini, pronti a dimostrare che la gloria non sta nel legno dell’anello ma nell’asfalto che brucia. E come in ogni grande poema ciclistico, ecco comparire i fiamminghi, perché senza di loro la bicicletta sarebbe orfana di radici. In particolare spicca un nome che sembra uscito da un verso di Ossian: Thor Michielsen, il vichingo che si cimenta con le strade mediterranee.
Ma il ciclismo non è mai solo elenco di nomi e classifiche: è, piuttosto, la metafora di ciò che siamo. Nella sua brutalità non permette scappatoie: non ci sono arbitri da convincere, falli da simulare, porte da varcare per caso. La strada non mente, e la salita è un tribunale più severo di qualsiasi toga. Chi cede viene smascherato all’istante, chi resiste diventa eroe, anche se arriva per ultimo.
Eppure, in questa crudele sincerità, il ciclismo tocca il sublime. Ogni pedalata è un atto di fede contro la resa, ogni salita è un poema in versi spezzati, ogni traguardo una pagina di letteratura collettiva. Non a caso Gianni Brera scriveva che “il ciclismo è fatica, e la fatica è la più nobile delle verità”. E Dino Buzzati, che del Giro d’Italia fece un poema, vedeva nei corridori “i cavalieri erranti di un’epoca che non sa più riconoscere i suoi eroi”. Montanelli stesso ammetteva che nessuno sport come il ciclismo riesce a restituire la dimensione epica della vita quotidiana: il corridore che arranca in salita diventa simbolo dell’uomo che combatte contro il destino.
Sì, possiamo ridere dei 334 pedali che cigolano convinti di reggere il mondo. Possiamo ironizzare sulle borracce che volano, sulle smorfie grottesche che trasformano volti adolescenti in maschere antiche. Ma il ciclismo resta lo sport che più di ogni altro sa trasformare la fatica in bellezza, la sofferenza in poesia, la sconfitta in nobiltà.
Alla fine resterà un nome inciso negli annali, certo. Ma l’essenza del ciclismo non è mai solo nel vincitore: è nel gruppo che si sfianca, nell’ultimo che non si arrende, nel pubblico che applaude senza fare distinzioni. È nell’illusione collettiva che 334 pedali possano davvero reggere il mondo, almeno per quattro giorni.
E forse, in fondo, è proprio così: il ciclismo regge il mondo perché ci ricorda che la gloria è sempre figlia della fatica, e che la vetta, per quanto lontana, appartiene a chi ha il coraggio di crederci fino all’ultimo respiro.
Luisa Paratore
Roma 05/09/2025