l'ALTARE DELL'INCLUSIONE
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L’altare dell’inclusione o la liturgia delle ovazioni

La Chiesa ama definirsi immobile nella Tradizione, quasi fosse una cattedrale scolpita nel marmo del tempo. Eppure, ogni tanto, qualche crepa si apre, e dal marmo scaturisce una fioritura imprevista. È accaduto a Roma, il 6 settembre 2025, quando monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha celebrato una messa per il Giubileo della comunità LGBT. Con voce ferma, ha proclamato: «È tempo di restituire dignità a tutti, nessuno deve sentirsi escluso». Non un’affermazione qualunque, ma una frase capace di riscrivere l’atmosfera del rito. Non a caso, la celebrazione si è conclusa con una standing ovation: un gesto inconsueto, che ha trasformato la compostezza liturgica in entusiasmo teatrale.
Ed eccoci al punto. È ancora liturgia o è già spettacolo? È il culmine della vita cristiana o una nuova rubrica del palinsesto pastorale? Il dubbio è lecito, perché la grammatica del rito, di solito scandita da silenzi, preghiere e canti, si è improvvisamente arricchita di applausi a scena aperta. Una novità che forse non scandalizza il cielo, ma che inevitabilmente incuriosisce chi, da secoli, considera la Messa un linguaggio sacro e non una conferenza motivazionale.
Certo, il Vangelo predica misericordia e inclusione, e il Catechismo invita a trattare le persone omosessuali con rispetto e delicatezza. Nulla da eccepire, anzi: è un dovere. Ma l’accoglienza evangelica è cosa diversa dall’uso dell’altare come tribuna identitaria. È un conto dire “venite a me, voi tutti”, ed è un altro assistere a un rito che, pur restando formalmente valido, si carica di un messaggio così specifico da sembrare quasi monografico. La Messa è universale per definizione; se diventa tematica, rischia di perdere la sua stessa natura.
L’omelia di Savino ha introdotto parole nuove nel lessico liturgico: “giustizia riparativa”, “volti feriti”, “tenerezza salvifica”. Espressioni suggestive, ma più vicine al linguaggio delle scienze umane che a quello del rito. Nulla di male, certo, ma si ha l’impressione che l’altare si sia trasformato in una sorta di pulpito terapeutico. È un po’ come quando, a un concerto di musica classica, qualcuno inserisce all’improvviso una chitarra elettrica: non è stonata in sé, ma cambia il tono dell’intera sinfonia.
Poi c’è il dettaglio che tutto nobilita: l’incoraggiamento papale. Monsignor Savino ha raccontato che, ricevuto in udienza lo scorso agosto, il Pontefice gli avrebbe detto: «Lei vada a celebrare». Con simili parole, ogni eventuale sospetto di irregolarità evapora. Ciò che in mano a un parroco qualunque apparirebbe come audacia borderline, con il placet pontificio diventa atto pastorale esemplare. E così il confine tra eccezione e regola si fa labile, elastico, pronto a piegarsi secondo il vento dello Spirito… o quello del consenso.
Ed è proprio qui che nasce il paradosso. Nel tentativo di includere, si rischia di dividere. Nel desiderio di accogliere tutti, si finisce col creare celebrazioni che non tutti riconoscono. La standing ovation, simbolo di entusiasmo e gratitudine, diventa anche segnale di frattura: non tutti i fedeli si ritrovano in una liturgia che prende in prestito la grammatica del mondo secolare. E il sospetto è che, più che aprire le porte a tutti, si stia semplicemente cambiando serratura.
Il sarcasmo, qui, è inevitabile. Forse un giorno l’Ordinamento del Messale Romano dovrà prevedere nuove rubriche: dopo il segno della pace, l’applauso liberatorio; dopo il Credo, un momento di “condivisione di storie di ferite e bellezza”; al termine, standing ovation obbligatoria, per suggellare la nuova liturgia dell’entusiasmo. Non per derisione, ma per coerenza con ciò che già accade.
Resta però una questione più profonda: la Chiesa, così facendo, rischia di sostituire la verità del Mistero con la forza dell’emozione. Il cristianesimo non ha paura delle lacrime né delle gioie umane, ma non può ridursi a un rito “a tema”. La Messa non è una pagina bianca su cui scrivere di volta in volta l’urgenza del momento; è un codice simbolico che appartiene a tutti, al di là delle sensibilità e delle identità.
Alla fine, il problema non è l’intenzione — che è nobile — ma l’effetto. Un rito pensato per unire rischia di polarizzare. Una liturgia che vuole parlare a tutti rischia di diventare il linguaggio di pochi. E mentre l’applauso sale, resta sospesa una domanda che non trova facile risposta: siamo di fronte a un atto coraggioso dello Spirito o a un azzardo pastorale che confonde la sacralità del rito con l’urgenza del consenso?
Luisa Paratore
Roma 08/09/2025
Fonti
1. ANSA, Mons. Savino a cattolici Lgbt: “È ora di restituire dignità a tutti”, 6 settembre 2025, disponibile su: [ansa.it](https://www.ansa.it/vaticano/notizie/2025/09/06/mons.savino-a-cattolici-lgbte-ora-di-restituire-dignita-a-tutti_e0357f4c-eac9-4034-81f7-99386cbc4a5c.html)