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NE UCCIDE PIU' LA SPADA CHE LA PENNA? - ETTORE LEMBO NEWS

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       Ettore Lembo:
ne uccide più la spada che la penna?
 
Ettore Lembo ha collaborato con il prof. Corrado Faletti alla stesura e realizzazione del libro “Ne uccideva più la penna che la spada”, un'opera che presenta tutte le caratteristiche per suscitare grande interesse non solo tra gli addetti ai lavori, giornalisti, comunicatori, scrittori, ma anche tra i lettori comuni, sempre più coinvolti dal mondo dell’informazione, oggi spesso travolto da contraddizioni e manipolazioni.
Dottor Lembo, quale evento o riflessione l’ha spinta a collaborare con il prof. Faletti a questo libro?
La ringrazio per la domanda. Tengo però a precisare, e mi fa piacere sottolinearlo, che non sono dottore, non avendo mai sostenuto un esame di laurea. La collaborazione con Corrado è nata in modo spontaneo e naturale nel tempo. Abbiamo iniziato a lavorare insieme attraverso il suo giornale, dove ho curato la redazione per il Lazio, e abbiamo subito riscontrato una forte sinergia d’intenti. Questo ci ha portati a confrontarci spesso, prima sui testi, poi sui contenuti e infine su questioni più profonde riguardanti il giornalismo stesso. La stima reciproca lo ha portato a chiedermi di scrivere alcune prefazioni per le sue opere letterarie. Quando poi ha deciso di dar vita a questo libro, (spinto da un evento personale che io definisco “miracoloso”, ma che spetta a lui raccontare, se e quando lo vorrà), mi ha voluto coinvolgere. Abbiamo sentito l’urgenza di affrontare, con chiarezza e coraggio, le storture del giornalismo contemporaneo e cercare nuove vie per restituirgli la sua funzione originaria: servire il cittadino.
Cosa ne pensa di Faletti e del caso Betapress?
Preferisco non commentare in modo diretto il caso Betapress: sarei inevitabilmente di parte. Mi limito a proporre uno spunto di riflessione: com’è possibile essere licenziati due volte dallo stesso posto di lavoro? Forse i media dovrebbero porsi questa domanda. E qualcuno dovrebbe rispondere.
Qual è il messaggio principale che intendete trasmettere ai lettori?
Educare, far riflettere, stimolare il pensiero libero e critico. Non vogliamo solo denunciare i problemi, ma anche proporre soluzioni concrete. Questo è l'obiettivo del libro.
Nel testo denunciate l’utilizzo strumentale dei media da parte del potere politico. In che modo avviene questo processo?
Viviamo in un tempo dominato da una sovrapposizione di informazione, controinformazione e disinformazione ben costruita, spesso veicolata anche attraverso l’intelligenza artificiale. A tutto ciò si aggiungono programmi di intrattenimento travestiti da approfondimento, dove chiunque esprime “opinioni” senza preparazione o conoscenza dei fatti. Questa confusione diventa il terreno ideale per la propaganda, spesso “pagata” e funzionale a generare profitto o consenso per pochi. Se poi si segue la moda, il partito di riferimento, o peggio, l’influencer del momento, si finisce per smarrire ogni contatto con la realtà.
Quali segnali dovrebbe cogliere un lettore per riconoscere una manipolazione dell’informazione?
Il primo segnale è l’assenza delle fonti. Quando una notizia proviene da una sola fonte, magari poco attendibile o anonima, e viene ripresa a catena dal web in mille varianti, diventa quasi impossibile verificarne l’attendibilità. La verità si smarrisce nel rumore.

 
Nel libro parlate di una nuova forma di censura. Perché la ritenete più pericolosa di quella tradizionale?
Oggi la censura non ha più la faccia severa della repressione esplicita, ma si nasconde dietro al “politicamente corretto” o al silenzio strategico. Quando un fatto viene ignorato o raccontato in modo distorto per tutelare determinati interessi, siamo di fronte a una censura subdola e ben più pericolosa di quella del passato.
La libertà di stampa in Italia è sotto pressione?
Provi a indicarmi un giornale di larga diffusione che sia davvero indipendente, non legato a partiti o a gruppi editoriali con interessi economici. Anche le piccole testate, che vivono di poche risorse, spesso evitano di pubblicare articoli “scomodi” per timore di ritorsioni. La pressione è reale, anche se raramente dichiarata.
Nel libro fate un parallelo con le “leggi fascistissime”. Ritiene che ci sia un reale rischio di involuzione autoritaria oggi?
Non amo i paragoni con il passato fascista. Viviamo in un contesto storico completamente diverso. Tuttavia, invito a leggere testi che parlano della gestione del potere e dei suoi abusi, come il libro di Palamara e Sallusti. È lì che si può cogliere il rischio autoritario di oggi, che si manifesta in forme nuove e più sofisticate.
Quali errori del passato il giornalismo italiano sta ripetendo?
L’errore più grave è quello di non offrire una visione completa e il più possibile obiettiva dei fatti. Senza questo, il lettore non può formarsi un’opinione consapevole.
Quanto incide il comportamento individuale dei giornalisti sul sistema mediatico nel suo complesso?
Il sistema ha spaccato il giornalismo in due categorie: pro e contro. In questo modo ha svuotato la figura del giornalista del suo significato più profondo, che è quello di servire la verità e non le fazioni.
Cosa impedisce ai giornalisti di svolgere pienamente il proprio ruolo critico?
Manca il coraggio della libertà, e c’è il timore di subire ritorsioni personali o familiari. Il caso di Julian Assange è emblematico. Anche lui ha commesso errori, certo, ma rappresenta ciò che il giornalismo oggi ha paura di essere: scomodo e libero.
Nel libro invitate i lettori ad acquisire maggiore consapevolezza. Quali strumenti suggerite?
Leggere fonti diverse, confrontare, andare oltre il titolo o la notizia “virale”. Solo così si può costruire una visione più ampia e reale del mondo.
Quali azioni può compiere la società civile per difendersi dalla manipolazione mediatica?
È una domanda complessa, alla quale il libro cerca di rispondere. Serve un lavoro di crescita collettiva, di educazione alla lettura critica, ma anche una maggiore responsabilità nel diffondere e commentare le notizie.
Quali reazioni ha ricevuto finora dai lettori e dai colleghi?
Ne ho parlato con diversi amici e colleghi: tutti riconoscono quanto il tema sia urgente. Spesso, però, prevale la paura. Ci sono convegni deserti, proprio su questi argomenti, mentre quelli promossi da ordini e istituzioni, che tendono a indirizzare verso un pensiero unico, sono sempre pieni. Basti pensare ai corsi obbligatori dell’Ordine dei Giornalisti.
Che impatto spera possa avere questo libro sul dibattito pubblico e sull’etica giornalistica?
Spero che possa aprire un dialogo vero, libero, capace di far emergere quelle menti brillanti che oggi vengono oscurate da interessi che nulla hanno a che fare con il bene comune. È così che, dopo i periodi bui, nascono i Rinascimenti. E da qui può iniziare la costruzione di un’Italia migliore, punto di riferimento per il Mediterraneo e oltre.
Secondo lei, quale direzione dovrebbe prendere il giornalismo italiano per ritrovare credibilità e autorevolezza?
Semplice a dirsi, difficile a farsi: liberarsi dagli interessi e tornare a premiare la meritocrazia.
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